RADICALI ROMA

Di cosa parliamo quando parliamo di uninominale

di Massimiliano Iervolino, Europa del 10 Settembre 2010

Il recente appello sull’uninominale promosso, tra gli altri, da Pietro
Ichino, Marco Pannella e Mario Baldassarri, ha il merito di rimettere al
centro del dibattito politico italiano il rapporto tra eletto ed elettore.
Questo, da parecchi anni, è stato logorato da controriforme atte a
ridimensionare il potere del cittadino a favore di quello dei partiti. Il
punto più basso è stato sicuramente raggiunto con il cosiddetto
“porcellum” ma le leggi elettorali che si sono susseguite prima di quella
attuale, comprese quelle per i comuni e per le regioni, hanno sempre
favorito un rapporto distorto con il territorio. Il collegio uninominale è
l’unica alternativa alle nomine delle segreterie di partito ed al sistema
di potere che c’è dietro il voto di preferenza. Proprio per questo motivo
nel 1993 il popolo italiano, a stragrande maggioranza, votò a favore del
collegio uninominale. Scelta che fu “tradita” dal legislatore che inserì
quel 25% di quota proporzionale, che nei fatti ridimensionò la grande
riforma che i promotori della consultazione popolare avevano a cuore. Va
ricordato che il grande sostegno dei cittadini giunse durante
tangentopoli, che concise con il momento più critico per la partitocrazia
italiana. Purtroppo, sia il tradimento del referendum elettorale che
quello sul finanziamento pubblico dei partiti, consentì a questi ultimi di
conservare tutto il loro potere: infatti, negli anni successivi al
terremoto giudiziario, abbiamo assistito al cambiamento di alcuni attori e
di molte sigle elettorali ma purtroppo di mutamenti radicali che
giovassero alla nostra democrazia non abbiamo visto neanche l’ombra. Il
rischio che senza riforme strutturali si potesse passare al secondo tempo
della prima Repubblica e non alla seconda, fu il monito che Marco Pannella
lanciò durante “mani pulite”. Negli anni successivi a tangentopoli il
Parlamento non ha approvato nessuna legge capace di riconsegnare
interamente il potere di scelta ai cittadini e nessun passo in avanti è
stato fatto in merito all’attuazione dell’articolo 49 della Costituzione.
Il continuo intreccio della cronaca politica con quella giudiziaria, che
continua tutt’oggi, è la miglior prova della giustezza dell’analisi di
Pannella. L’alternativa è possibile solo con l’alterità nei comportamenti,
altrimenti si parli di alternanza e nulla di più. Il sistema di potere dei
partiti, che attanaglia il nostro paese da un sessantennio, può essere
ridotto attraverso il collegio uninominale e, aggiungo, con le primarie
previste per legge, a tutti i livelli, compreso quello locale. Le elezioni
regionali, quelle comunali e quelle municipali, continuano a prevedere il
voto di preferenza. Basta guardare cosa succede nelle assemblee elettive
locali per capire che l’uso della preferenza non è auspicabile per chi
vuole concepire una politica realmente alternativa. Lì dove dovrebbe
nascere la futura classe dirigente del paese si ha un sistema elettorale
che accentua il mantenimento dello status quo. Infatti, coloro che possono
aspirare ad essere eletti in queste assemblee sono i soli candidati che
negli anni hanno saputo rendere feconde le proprie clientele, pratica
distante dalla cura del territorio e dalla possibilità di riconoscersi in
esso. Illuminante, in materia, la struttura del bilancio della Regione
Lazio, di recente modificata: fino al bilancio 2006, con un meccanismo che
è esploso sotto la giunta Storace, erano allegate al documento di
previsione delle spese le fantomatiche “tabelle”, un elenco di contributi
da erogare senza alcuna ratio settoriale o geografica, se non il dover
accontentare le clientele politiche di ciascun consigliere regionale. Un
contributo di circa 600.000 euro all’anno per ogni eletto che, senza
nessuna regola, poteva essere girato ad associazioni, chiese, centri
sportivi, enti, fondazioni e tanto altro. Non era altro che il modo di
ripagare i loro “grandi elettori” attraverso i soldi pubblici. Quando
questo sistema per delinquere fu attaccato dalla stampa, i fautori di
quella vera e propria truffa si difesero richiamandosi al rapporto con il
territorio. Questo è uno dei tanti modi della politica “a delinquere” di
ampliare la propria base elettorale. Metodi illegali che favoriscono
coloro che ogni giorno curano le proprie clientele. Infatti, se così non
fosse, non si comprenderebbe come perfetti sconosciuti siano capaci di
raccogliere decine e decine di migliaia di preferenze. Tutto questo accade
senza che un solo magistrato abbia la voglia di indagare su questi fatti,
ma quella della non-giustizia italiana è un’altra storia (un altro
capitolo!) della peste italiana.