RADICALI ROMA

Veltroni e la controinchiesta su Pasolini

E adesso? Adesso che tentano di stanarlo con una proposta impossibile — fare il sindaco di Roma e insieme il segretario del primo partito di un governo in grave difficoltà — Walter Veltroni anziché rifugiarsi in Africa si inoltra nel proprio passato. E riapre un caso degli anni in cui iniziava la sua vita politica: l’assassinio di Pier Paolo Pasolini. Nel 1973 un gruppo di ragazzi della Fgci romana andò a trovare lo scrittore, che dal partito tempo prima era stato espulso per indegnità morale, e che era stato molto duro con il movimento studentesco.

Erano il capo dei giovani comunisti romani, Gianni Borgna, il responsabile culturale, Goffredo Bettini, un intellettuale destinato ad altri lidi, Nando Adornato, e il più giovane di tutti, un diciottenne con i capelli lunghi fin sulle spalle e un grande paio di occhiali. Racconta Walter Veltroni: «Credo di essere stato il primo del gruppo ad aver conosciuto

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Pierpaolo, al tempo del Sessantotto. Avevo 13, 14 anni, ero nel comitato di base del liceo Tasso, e Pasolini veniva a sentire le nostre riunioni. Era molto attento, molto curioso di quanto pensavamo e scrivevamo. Il rapporto continuò. Eravamo un bel gruppo: con Adornato, che dirigeva la nostra rivista Roma giovani, c’erano Marco Magnani, Fabrizio Barca, Giorgio Mele. Pierpaolo venne con noi in piazza di Spagna a manifestare contro la garrota e la pena di morte…». Pasolini comincia a prendere parte alla vita della Fgci romana. Va al festival di Villa Borghese del ’74, poi a quello del Pincio del ’75, dove tiene un dibattito fino alle 2 del mattino con 5 mila persone tra cui, seduto in prima fila accanto a Petroselli, Borgna, e Veltroni, c’è Fabrizio De André, che ha appena finito il suo primo grande concerto. Nel giugno di quell’anno, Pasolini appoggia la candidatura di Borgna alle amministrative con un appello a votare Pci — «il paese pulito nel paese sporco…» — pubblicato sull’Unità, dopo che la nomenklatura del partito aveva seguito con sospetto il dialogo tra i giovani e lo scrittore.

A novembre, Pasolini è ucciso. Dal diciassettenne Pino Pelosi «in concorso con ignoti», come stabilì il tribunale dei minori con una sentenza impugnata dalla magistratura ordinaria, secondo cui gli «ignoti» non erano mai esistiti. Due anni fa, uscito dal carcere, Pelosi parlando a Raidue ha ritrattato la confessione dell’epoca: a uccidere sarebbe stato un gruppo che avrebbe minacciato di morte lui e i suoi genitori se avesse parlato. Il Comune di Roma, per volontà di Veltroni e di Borgna, si è costituito parte offesa. E quando il caso è stato subito richiuso, il Comune ha affidato a Guido Calvi, senatore e storico avvocato del partito, una controindagine. Che ora è pressoché conclusa, e sarà depositata in procura, per chiedere una nuova inchiesta e un vero processo. Allo stesso scopo ieri mattina, mentre all’Auditorium infuriava la contestazione a Prodi, nell’attigua libreria Borgna insieme con Andrea Camilleri, Mario Martone, Dacia Maraini e Carla Benedetti presentava le 700 firme raccolte tra letterati di tutto il mondo, da Bernard-Henri Lévy in giù.
«Sono convinto che la morte di Pasolini sia un punto-chiave della vicenda italiana — dice Veltroni —. È giusto, per la memoria di Pierpaolo e per quanto è stato tolto a Roma e al paese, che si faccia luce. Il delitto dell’idroscalo è un mistero, indagato in libri e film. Ora noi chiediamo alla magistratura di andare sino in fondo». Non si tratta, sostiene il sindaco, di alimentare la retorica del doppio Stato, di evocare il fantasma delle dietrologie, o anche solo di «farsi un’idea» diversa da quella ufficiale. «Come in tutti questi casi, “farsi le idee” è compito degli inquirenti. Io posso dire qual è la mia impressione: le cose non sono andate come ha raccontato Pelosi. Se non altro per il fatto che ha cambiato troppe volte versione. È un’impressione diffusa; per questo siamo in molti a chiedere di indagare in profondità su una morte strana, oscura».
Il motivo per cui Veltroni tiene molto a riaprire il caso non riguarda solo la giustizia e la storia, ma la politica. «La fine di Pasolini fu uno degli spartiacque di quella stagione. Io non ho una visione tutta negativa degli Anni Settanta, anzi. Gli Anni Settanta sono divisi in due: una prima parte, che dura fino a metà del ’76, è di fatto il proseguimento degli Anni Sessanta, una stagione di grande fermento e creatività. Certo, la violenza politica si era già manifestata, c’erano stati piazza Fontana, l’Italicus, piazza della Loggia, ma il paese aveva saputo reagire, la società italiana era percorsa da energie vitali. Poi, quasi di colpo, le cose cambiano. Tra il 20 giugno ’76 e il festival del parco Lambro passano poche settimane, ma il clima è già completamente diverso. Comincia un decennio orribile, quello tra il ’76 e l’86, per il quale davvero non esiste una definizione più opportuna che anni di piombo. Un periodo grigio, carico di odio, di sangue. L’assassinio di Pasolini è uno degli episodi che segnano il cambio di stagione. Un motivo in più per scoprire la verità. La notizia fu uno choc, al punto che ne ho un ricordo confuso: mi telefonarono a casa, il mattino dopo. Andammo nella sua casa di campagna, a Chia, a girare materiale d’inchiesta, c’era anche Bernardo Bertolucci…».
Ma quali sono gli elementi nuovi sulla morte di Pasolini? Borgna (che insieme a Carlo Lucarelli ha firmato l’inchiesta pubblicata da MicroMega due anni fa) ha seguito la controindagine di Calvi passo dopo passo. Era presente quando Martone filmò il dialogo tra il senatore e Sergio Citti. Poco prima di morire, Citti confermò come quella sera Pasolini avesse appuntamento alla stazione Termini con i ragazzi che avevano rubato frammenti del suo ultimo film, Salò. «Il racconto di Citti e la nostra ricostruzione combaciano con le carte del 1975, in particolare con gli interrogatori degli amici di Pelosi — dice Borgna —. È falso che Pelosi non avesse riconosciuto Pasolini. I suoi compagni raccontano di aver scherzato con lui, di avergli chiesto di fare un giro in macchina, di avere una parte nel prossimo film. Pierpaolo non si era fidato, aveva messo la sicura alla portiera e abbassato solo un poco il finestrino, per dire che aveva un appuntamento.
Non fu Pasolini ad adescare Pelosi; semmai, il contrario. Pelosi fu l’esca, non il carnefice. Pasolini fu massacrato prima ancora che lo schiacciassero con l’auto, aveva undici fratture ed era una maschera di sangue; il suo presunto assassino non aveva neppure una macchia sul vestito chiaro. Sulla macchina, incredibilmente lasciata all’aria aperta dagli inquirenti di allora, c’erano un maglione verde, un plantare e tracce di sangue che non appartenevano né a Pasolini né a Pelosi. È palese che si è trattato di un delitto di gruppo, e premeditato — conclude Borgna —. Resto convinto che sia plausibile anche una chiave politica, legata al romanzo che Pierpaolo stava scrivendo, Petrolio, in cui le sue accuse al sistema erano collegate al caso Mattei. Ma di questo non abbiamo trovato prove inconfutabili. Il suo testamento resta però l’ultima intervista, affidata a Furio Colombo, cui Pasolini aveva suggerito questo titolo: “Siamo tutti in pericolo”».
Aldo Cazzullo