RADICALI ROMA

Veronesi: aborto terapeutico, tempi minori

  Due settimane in meno per l’aborto terapeutico e reintroduzione della diagnosi preimpianto per quelle coppie che già sanno di avere figli con malattie ereditarie, come la talassemia. In sintesi è questa la proposta di modifica della legge 194, quella che ha introdotto l’interruzione di gravidanza in Italia, avanzata da Umberto Veronesi, direttore scientifico dell’Istituto europeo di oncologia (Ieo), ex ministro della Sanità, scienziato di fama internazionale. Spiega: «Penso che sia ragionevole fissare come limite massimo per il cosiddetto aborto terapeutico la ventiduesima settimana di gravidanza, invece della ventiquattresima, soglia definita attualmente dall’abituale pratica clinica. Ed è auspicabile che la legge 194 si esprima in questo senso con correzioni ad hoc».

 

 

 

IL DIBATTITO — Veronesi riaccende così il dibattito innescato dal caso del bimbo sopravvissuto a un aborto terapeutico praticato all’ospedale Careggi di Firenze e poi morto nonostante gli sforzi dei medici per tenerlo in vita. «Nel caso in questione — sottolinea — c’è stato un errore diagnostico. Non si capisce come possa essere successo, anche se, da che mondo è mondo, gli errori si verificano purtroppo anche in medicina. Penso comunque che nel praticare l’aborto dopo la ventiduesima settimana di gestazione qualche rischio ci sia. Il bimbo, infatti, può sopravvivere e c’è l’obbligo medico di rianimarlo nonostante l’altissima probabilità di malformazioni permanenti».

 

Veronesi ha parlato del caso Careggi durante una pausa della presentazione, a Milano, del libro sugli Ogm: «Che cosa sono gli organismi geneticamente modificati. Dagli alimenti transgenici alle staminali: le ricerche scientifiche a favore della vita», edito da Sperling Kupfer e firmato da Veronesi insieme alla genetista dell’università degli Studi milanese, Chiara Tonelli. Tornando alla 194, Veronesi aggiunge: «Come sempre la legge detta le linee generali di comportamento. All’interno di ogni struttura sanitaria ci si regola poi al meglio, ma ritengo possibile che la 194 si esprima fissando un limite troppo preciso. Così come accaduto con la legge 40 sulla fecondazione assistita. Troppi paletti. Per esempio, quello alla diagnosi preimpianto».
Entrando nel merito? «Attualmente — risponde lo scienziato — l’articolo 4 della legge 40 riserva il ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita solo a i casi di sterilità e infertilità. E con ciò esclude le possibilità di ricorso per le coppie che sono fertili, ma che, essendo portatrici (uno o entrambi i partner) di malattie genetiche, potrebbero trovare nella procreazione assistita la speranza di mettere al mondo un figlio sano tramite la diagnosi preimpianto».

 

EUGENETICA — Con la diagnosi preimpianto si prelevano dalla donna (dopo stimolazione ormonale) un certo numero di uova mature, che vengono poste in provetta e fecondate con il seme del partner: ottenuti gli embrioni ai primissimi stadi se ne fa l’analisi genetica che permette di individuare quelli che non presentano la malattia. Gli embrioni selezionati, senza l’alterazione genetica, vengono poi introdotti nell’utero. «E’ un avanzamento scientifico e civile», sottolinea Veronesi.

 

Ma la Chiesa condanna l’eugenetismo. E la stessa legge 40 sbarra la strada alla diagnosi preimpianto anche con l’articolo 13, in cui si dice che «è fatto divieto di ogni forma di selezione degli embrioni a scopo eugenetico». Replica Veronesi: «I genetisti non sono interessati all’eugenetica: vogliono permettere a una coppia, minacciata da una malattia genetica nella loro discendenza, di poter avere un figlio sano. Non mi sembra eugenetismo evitare una malattia che è una condanna a morte ed evitare un aborto alla madre, che è devastante sempre e comunque».