La vita travolge le regole o è destinata a rimanerne prigioniera? Guardando al modo in cui in Italia si considerano i temi “eticamente sensibili” si può avere la fondata impressione che da questo dilemma non si esca. Le cronache ci parlano dell’aumento del numero di coppie che si recano all’estero per motivi di procreazione assistita, sottraendosi così ai vincoli della legge italiana. Dei vincoli legislativi, invece, sembra non potersi liberare Piergiorgio Welby per morire, come chiede, con dignità. Sull’intera discussione, poi si abbatte pesantemente una serie di pregiudiziali ideologiche, che rendono difficile non solo qualsiasi dialogo, ma la stessa comprensione dei problemi.
Piergiorgio Welby aveva scritto al Presidente della Repubblica e questi, rispondendogli, aveva sottolineato l’opportunità di una discussione parlamentare su questo difficile tema. Di fronte a questa richiesta la politica è fuggita, è scomparsa, quasi che il nostro Parlamento non sia in grado di sopportare il peso della realtà, di comprendere che l’invito di Giorgio Napolitano cercava di stabilire un circuito nuovo, con le istituzioni che non si ritraggono di fronte ai drammi dell’esistenza e così possono recuperare la fiducia dei cittadini. E a questa fuga si accompagnano confusioni terminologiche, sorprendenti vuoti di memoria relativi a situazioni già risolte e che qualcuno sembra voler rimettere in discussione. A questo atteggiamento, che rivela un limite della politica non più accettabile, risponde l’ultima mossa del presidente della Repubblica, altamente simbolica e politicamente significativa: la concessione della grazia ad una persona condannata per un intervento attivo ed estremo per consentire al figlio una morte dignitosa.
Eutanasia, accanimento terapeutico, testamento biologico. Parole e concetti che vengono mischiati, sovrapposti, mentre si tratta di questioni tra loro diversissime, pur dovendo essere affrontate partendo da una premessa comune: le decisioni che riguardano il vivere e il morire appartengono ormai agli interessati, la regola è quella del consenso,dunque della volontà liBeramente manifestata da ciascuno. Sono ormai numerosi, e ben noti, i casi di persone che riguardano. La regola è quella del consenso, dunque della volontà liberamente manifestata da ciascuno. Sono ormai numerosi e ben noti i casi di persone che hanno rifiutato una cura o un intervento chirurgico, preferendo la morte a un intervento chirurgico, preferendo la morte ad una esistenza in condizioni menomate. E questo accade anche per convinzioni religiose. Ai Testimoni di Geova è stato riconosciuto il diritto di rifiutare le trasfusioni di sangue, anche quando questa decisione può essere letale. Se la morte appartiene alla natura, il morire diventa sempre più governabile dall’uomo, appartiene alla sua vita, dunque rientra nell’autonomia delle scelte individuali.
Ribadita questa premessa, ormai indiscutibile, vi è un secondo punto fermo da considerare. Da tempo l’accanimento terapeutico non è ritenuto legittimo. Lo diceva la chiesa di Pio XII già negli anni ’50. Lo dichiara espressamente l’articolo 14 del Codice di deontologia medica, stabilendo che “il medico deve astenersi dall’ostinazione in trattamenti da cui non si possa fondatamente attendere un beneficio per l’assistito e/o un miglioramento della qualità della vita”. Qui emerge con nettezza il principio di dignità, che deve accompagnare ogni persona fino all’estremo limite della vita.
Conclusione obbligata: non servono nuove regole contro l’accanimento terapeutico, e il testamento biologico non puòo essere considerato uno strumento che serve, appunto, ad impedirlo. La sua funzione è del tutto diversa. La persona cosciente, in grado d’intendere e di volere, può in ogni momento rifiutare una cura, un trattamento. Ma che cosa accade quando questa capacità è perduta? Il governo della vita è ormai affidato soltanto a decisioni dei congiunti o del medico, o ciascuno di noi dev’essere messo in condizione di proiettare la propria volontà nel futuro, decidendo in anticipo le modalità del morire conformi alle sue convinzioni? Ecco perché si parla di testamento, strumento storicamente adoperato per permettere a ciascuno di stabilire la sorte dei propri beni dopo la morte, e che oggi diviene parola che descrive il potere di ciascuno di stabilire, sempre in anticipo la sorte del proprio corpo. E dalla legittimità del testamento biologico non si può più discutere, visto che essa si manifesta come una conseguenza necessaria del principio che attribuisce alla volontà dell’interessatole decisioni che riguardano la sua vita, che costruisce il rifiuto di cure come un diritto. Oggi si tratta soltanto di stabilire le sue modalità, non di discuterne l’ammissibilità.
Combiniamo questi diversi elementi ed applichiamoli al caso di Piergiorgio Welby. Esso è del tutto estraneo alla materia del testamento biologico, trattandosi di persona in grado di prendere consapevolmente le decisioni che lo riguardano. La regola, quindi, va cercata nel principio ricordato prima, nell’autonomia della volontà, nel diritto di rifiutare le cure e di chiedere l’interruzione di un trattamento che garantisce la sopravvivenza, ma testimonia un accanimento, rende l’esistenza intollerabile ed impedisce di morire con dignità.
Con parole pacate, il presidente della Commissione Sanità del Senato, Ignazio Marino, ha cercato di ricondurre la discussione a questi dati di realtà. Impresa che rischia di diventare sempre più difficile, dal momento che si assiste a tentativi continui di azzerare tutto, di imporre in tutte le occasioni una connotazione ideologica che revoca in dubbio persino regole già acquisite.
Una regressione culturale e politica? Temo proprio di sì, e questo dovrebbe preoccupare soprattutto coloro i quali invocano il dialogo, il confronto aperto e, invece, si trovano di fronte a strumentalizzazioni continue delle questioni di vita per piccoli giochi politici. Le reazioni a questo cattivo costume non sono adeguate, e questo incoraggia una insistenza nei comportamenti aggressivi che trascina con sé ulteriore regressione culturale e peggioramento del clima politico.
Non è pessimismo o partito preso ad ispirare queste considerazioni. Guardiamo solo alle vicende più recenti. La ragionevole iniziativa di Livia Turco in materia di sostanze stupefacenti ha suscitato mosse parlamentari rivelatrici di una voglia di proibizionismo che, in nome di una astratta ideologica difesa dei valori della vita, produce conseguenze negative proprio per quei giovani che si dice di voler proteggere. Pochi giorni prima, in Consiglio dei Ministri, era stata attaccata una direttiva europea che prevede il diritto di soggiornare e circolare liberamente nei paesi dell’Unione anche per il partner dello stesso sesso di un cittadino nei casi di “relazione stabile debitamente accertata”, così ignorando, tra l’altro, che i trattati e la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea vietano ogni discriminazione basata sull’orientamento sessuale delle persone. E finora non si sono registrate reazioni adeguate alle recentissime notizie dell’aumento di quattro volte del numero delle coppie italiane che, per sfuggire al proibizionismo della legge sulla procreazione assistita, si rifugiano nei paesi più diversi, dalla Spagna alla Svizzera, dalla Turchia alla Grecia. Una constatazione grave, che dovrebbe allarmare per almeno due ragioni: l’evidente delegittimazione del Parlamento derivante l’inevitabile aggiramento di una legge che interferisce irragionevolmente nelle decisioni della vita; la creazione di una nuova “cittadinanza censitaria”, dal momento che i nuovi viaggi della speranza sono evidentemente alla portata solo di chi dispone di adeguate risorse finanziarie.
Bastano questi esempi per mostrare come, insieme alla regressione culturale, si s
tia manifestando un pericoloso e crescente isolamento dell’Italia nella stessa Unione europea proprio nelle materie che riguardano le nuove frontiere dei diritti delle persone. A questa deriva è indispensabile reagire con una azione culturale che mostri con convinzione che vi sono valori ri riferimento non meno rilevanti di quelli che, anche con evidenti forzature, vengono presentati come espressione della tradizione cattolica, alla quale, peraltro, la pigrizia intellettuale di molti sta affidando una vera delega in bianco. Sul piano politico serve una riflessione che, in presenza di fini dichiarati “non negoziabili”, ricordi che la politica democratica esige l’eguale rispetto dei diversi punti di vista e che, nelle materie che riguardano l’esistenza, non è possibile l’imposizione autoritaria di valori non condivisi, ma serve piuttosto la promozione dell’autoresponsabilità dei soggetti. Opportunamente Leopoldo Elia ha ricordato le parole pronunciate da Aldo Moro nel consiglio nazionale della DC all’indomani del referendum sul divorzio del 1974, sottolineando che settori dell’opinione pubblica “sono ora ben più netti nel richiedere che nessuna forzatura sia fatta con lo strumento della legge, con l’autorità del potere, al modo comune di intendere e disciplinare, in alcuni punti sensibili, i rapporti umani. Di questa circostanza non si può non tener conto, perché essa tocca ormai profondamente la vita democratica del nostro paese, consigliando talvolta di realizzare la difesa di principi e valori cristiani al di fuori delle istituzioni e delle leggi, e cioè nel vivo, aperto e disponibile tessuto della nostra vita sociale”. Il dialogo, quello vero, può partire da qui.