«Omicidio del consenziente», reato che prevede una condanna fino a quindici anni di carcere. È questa l’accusa dalla quale il gip Renato Laviola ritiene che debba difendersi il dottor Mario Riccio, l’anestesista che la notte del 20 dicembre ha «staccato la spina» dell’apparecchio che manteneva in vita Piergiorgio Welby. Con una decisione a sorpresa, il magistrato ha respinto la richiesta di archiviare il procedimento presentata dalla procura e le ha imposto di iscrivere il nome del medico sul registro degli indagati in vista dell’udienza durante la quale si discuterà il caso.
«Me lo aspettavo. Ma c’è amarezza. Sono più di 90 giorni che Piergiorgio è morto. E non ce l’hanno ancora restituito». Mina Welby non ha fatto nulla per nascondere il suo stato d’animo, dopo aver appreso del provvedimento. «Sapevo che non avrebbero prosciolto Riccio, anche se l’Ordine dei medici lo aveva scagionato. Ma ogni volta è come se girassero il coltello nella piaga», ha aggiunto la moglie del malato di distrofia che, dopo anni di sofferenze, si era rivolto al tribunale civile sollecitando una sentenza che gli consentisse di ottenere l’interruzione delle terapie. Mina Welby non ha alcun rimpianto: «Ora Piergiorgio sarebbe già morto comunque. L’autopsia lo ha dimostrato: non aveva più nemmeno i muscoli interni. Soffriva moltissimo. Gli abbiamo fatto una normale anestesia e abbiamo staccato il respiratore», ha detto, ricordando quei drammatici minuti. «Ma prima di farlo io gli ho chiesto: “Sei sicuro che lo vuoi?”. Lui mi ha guardato, ha sorriso e ha detto: “Sì”».
La scelta del giudice ha riacceso il dibattito politico. «Il collegio dei consulenti medici, dopo l’autopsia sul cadavere di Welby, aveva sottolineato come, “in conclusione sia possibile affermare che l’irreversibile insufficienza respiratoria che ha condotto al decesso sia da attribuire unicamente alla sua impossibilità di ventilare meccanicamente in maniera spontanea a causa della gravissima distrofia muscolare da cui lo stesso era affetto”», hanno detto Marco Pannella e Marco Cappato. Gli esponenti radicali hanno sostenuto di «non comprendere perciò, anche se nel quadro del funzionamento della giustizia italiana non ci sorprendiamo, quali considerazioni di altra natura abbiano portato il gip a rigettare la richiesta di archiviazione». Replica di Riccardo Pedrizzi (An): «I magistrati devono applicare le leggi, non interpretarle o riscriverle alla luce dei propri personalissimi convincimenti ideologici. La decisione del gip è ineccepibile». Di tutt’altro avviso Tommaso Pellegrino (Verdi): «II provvedimento del giudice conferma la necessità e l’urgenza di una legge contro l’accanimento terapeutico: il Parlamento — ha detto il deputato della maggioranza — ha il dovere di affrontare questo tema delicato senza farne una questione ideologica e di dare risposte ai tanti cittadini che sono in una condizione di grave sofferenza».
Dal Palazzo di giustizia si è appreso che la procura insisterà comunque nella richiesta di archiviazione dell’indagine, sin dall’udienza che verrà fissata nei prossimi giorni da Laviola. Un orientamento coerente con la linea sostenuta sin da quando c’era stata la necessità di esprimere un parere sulla vicenda, già all’epoca del procedimento di fronte al tribunale civile, prima della morte di Welby. Nel fascicolo penale, nel momento in cui si era trattato di sollecitare l’archiviazione dell’inchiesta sull’operato di Riccio, il procuratore Giovanni Ferrara e il pubblico ministero Gustavo de Marinis avevano osservato come «nessun addebito deve muoversi a chi, in presenza di un’impossibilità fisica del paziente, abbia materialmente operato il distacco del ventilatore automatico, in quanto l’azione è stata eseguita per dare effettività al diritto del paziente». Un diritto all’autodeterminazione — era stato messo in evidenza dai pm — che «trova la sua fonte nella Costituzione e in disposizioni internazionali recepite dall’ordinamento italiano e ribadito, in fonte di grado secondario, dal codice di deontologia medica».